Anna Maria Ortese e l'ispanita
1997; Johns Hopkins University Press; Volume: 112; Issue: 1 Linguagem: Italiano
10.1353/mln.1997.0008
ISSN1080-6598
Autores Tópico(s)Linguistic Studies and Language Acquisition
ResumoAnna Maria Ortese e l’ispanità Giuseppe Mazzocchi Il destino critico, per certi versi crudele, di Anna Maria Ortese ha portato solo negli ultimi anni alla riscoperta e alla valorizzazione di una delle scrittrici più interessanti del nostro Novecento, dopo decenni di ostracismo, di silenzio, di malinconici fallimenti editoriali, ogni tanto contrappuntati da qualche premio letterario che non riusciva però a scalfire un’indifferenza pressoché generale. La pubblicazione nel 1993 del Cardillo addolorato segna la tappa più significativa di questa tardiva consacrazione, e dà avvio a uno straordinario risveglio creativo culminato ora con Alonso e i visionari (1996). Restare fedeli alla letteratura in queste condizioni, com’è noto anche esistenzialmente drammatiche, ha avuto dell’eroico, e costituisce già in sé una splendida testimonianza del senso dello scrivere, dello scrivere in rapporto al vivere. Sarebbe ozioso, naturalmente, chiedersi quanto la solitudine, la ritrosa distanza dai riti e dai rumori del Barnum letterario siano stati il risultato dell’inorganicità ai valori letterari dominanti, o di una volontaria scelta di silenzio, nata dall’esigenza di vivere in solitudine con se stessi e i propri dolori. Quella che però è certa è l’assoluta coerenza con la propra ispirazione, al di là delle mode e dei condizionamenti ideologici. Quando nel suo primo libro, Angelici dolori (1937), serie di racconti coordinati fra loro dall’identità della protagonista e dalla natura autobiografica, Anna Maria Ortese si presenta come donna aliena alla contemporaneità, fissa per sempre quello che sarà un carattere costante di tutta la sua ricerca: Ormai della vita civile io non comprendevo più niente e, solo, uno spasimo silenzioso mi divorava di giorno in giorno, crescendo: lasciare quella stanza, evadere lontano, nelle gloriose terre d’eroi. E non lo dicevo, ma tutte le mie speranze posavano sempre più sul fratello Manuele che fra gli altri, s’era serbato libero d’ogni giro contemporaneo e, seduto innanzi al mare, cantava. (33) a me piangeva il cuore lo sgomento della solitudine, della ormai evidentissima inutilità mia di fronte alla vita pratica, alla civiltà moderna. (36) [End Page 90] Un carattere che si poteva confondere negli anni ‘30 con tutta una temperie letteraria, quella del “realismo magico” bontempelliano (e fu non a caso Massimo Bontempelli, dalla Fiera Letteraria, il mentore del libro), fra preziosismo formale e trasposizione onirico-fiabesca della realtà. Solo che, confusa fra questi tratti epocali, e forse, per certi aspetti, ancora manieristicamente tesa a riprodurli, una scrittrice poco più che ventenne definiva già i tratti indelebili della sua personalità futura. Tratti alla cui definizione contribuirà in misura notevole l’appropriazione personalissima della lingua e della cultura spagnola. Alle radici dell’ispanità (non hispanolidad 1 ) della Ortese ritroviamo diversi elementi. Le origini catalane della famiglia della scrittrice; 2 la forte e barocca ispanicità di Napoli, la città sempre presente nei libri della Ortese, che vi visse gli anni più importanti per la sua formazione, la città delle “cupe corti spagnole,” 3 dei “quartieri poveretti e pastorali, oppure cupamente spagnoli”; 4 infine l’esperienza autobiografica di letture e incontri. E la funzionalità che l’elemento ispanico acquista nell’opera della scrittrice va individuata in primo luogo nelle potenzialità affettive e fantastiche che le sfumature ispaniche della lingua da un lato, e i riferimenti culturali iberici dall’altro, possono dare alla pagina, nella direzione di quell’onirico-allegorico-simbolico (i termini sono stati variamente impiegati dalla critica) in cui la scrittrice traspone la propria realtà autobiografica, affermando i diritti dell’anima individuale, e quindi della vita, sulle cose, sul mondo. Il Porto di Toledo, pubblicato nel 1975, e ristampato con varianti dieci anni dopo, costituisce l’accesso esemplare a questo particolare aspetto dell’opera della scrittrice. In particolare, è illuminante la prefazione alla seconda edizione, che rappresenta dolorosamente la condizione di emarginazione in cui il romanzo fu composto: Quando scrissi questo libro a Milano, quattordici anni fa, la città era già immersa nell’aria innaturale e infiammata della Contestazione. Non so se la cosa influì sulla scrittura di Toledo. In senso negativo, se questo avvenne. Il rumore, la violenza eterna della grande città, dalla quale non potevo mai fuggire, si accrescevano di questo riverbero “politico.” Odiavo il “politico” di tutti i tempi, e in ogni sua espressione. Pura nevrastenia, ovviamente. Il mondo...
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