“Tre diero affetti assalto al tracio petto”: Il mito di Procne, Filomela e Tereo nei volgarizzamenti ovidiani
2017; University of Chicago Press; Volume: 20; Issue: 1 Linguagem: Italiano
10.1086/691332
ISSN2037-6731
Autores Tópico(s)Byzantine Studies and History
ResumoPrevious articleNext article Free“Tre diero affetti assalto al tracio petto”: Il mito di Procne, Filomela e Tereo nei volgarizzamenti ovidianiFabrizio BondiFabrizio BondiScuola Normale Superiore di Pisa Search for more articles by this author PDFPDF PLUSFull Text Add to favoritesDownload CitationTrack CitationsPermissionsReprints Share onFacebookTwitterLinked InRedditEmailQR Code SectionsMoreCi par di vedere la natura umana spinta invicincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscuotersi, di cui non può nemmeno accorgersi.(A. Manzoni, Storia della colonna infame)Puis par moyens estrangement subtils,Sont faits oiseaux, tous de divers plummage.(B. Salomon, La métamorphose d’Ovide figurée)A volte il passato ci si fa incontro in modo del tutto inaspettato, suscitando in noi delle domande. Durante il restauro di un’antica dimora nobiliare, ad esempio, possono venire alla luce schegge di immagini, frammenti di un affresco di cui non si sospettava l’esistenza, nascosti com’erano sotto intonachi moderni (fig. 1).1 Un affresco il cui soggetto proviene dalle Metamorfosi di Ovidio, fatto già di per sé non comune per un’abitazione privata. Per di più il mito ivi raffigurato, si scopre, è il “più truce e sanguinario del poema, e forse dell’intera mitologia greco-latina.”2 Esso è tratto dal VI libro delle Metamorfosi (vv. 571–674), in cui si narra di Procne figlia del re greco Pandione, la quale, sposata per motivi politici al re tracio Tereo, convince il marito a recarsi ad Atene per riportarle in visita l’adorata sorella Filomela. Ritornato in patria, Tereo stupra la fanciulla, le mozza la lingua perché non possa parlare e la rinchiude in un luogo isolato. Ma Procne, venuta a sapere il fatto tramite una tela tessuta dalla sorella, la libera e si vendica di Tereo facendogli mangiare le carni del figlioletto Iti. Rincorse dall’infuriato Tereo, Procne e Filomela si trasformano rispettivamente in rondine e in usignolo, mentre il re viene mutato in upupa, e Iti in fagiano.Figura 1. Artista ignoto (scuola dei Campi?), Procne e Filomela mostrano a Tereo la testa di Iti, Palazzo Fodri, via Beltrami 16, Cremona, 1550–60?, affresco. (Proprietà Ing. Angelo Bodini.)È presumibile che chi fece raffigurare (sia pure con grande raffinatezza) un mito così estremo in un luogo di rappresentanza della propria casa gli attribuisse un significato ben preciso. E anche ipotizzando che tale significato fosse legato a circostanze affatto peculiari e personali, è evidente che le condizioni di possibilità di tale applicazione erano già inscritte nel sistema culturale di riferimento del committente e del pittore. Nel presente lavoro ho voluto appunto indagare alcune modalità della ‘rinascita’ del mito3 di Procne nella cultura cinquecentesca italiana, a partire dalla domanda su come i nuclei di significato che gli antichi riconoscevano in esso—e che si ritrovano puntualmente nella narrazione ovidiana4—vi trasmigrino e vi siano eventualmente trasformati.Per i Greci e i Latini, innanzitutto, il binomio Tracia/Atene rimandava al rapporto dicotomico tra barbarie e civiltà, ma anche al rischio sempre attuale che la seconda corre di regredire nella prima. Il mito aveva poi delle implicazioni politiche, poiché Tereo era visto come tipo del tyrannos, l’autocrate crudele, arrogante ed empio (non a caso, nella cultura latina era avvicinato a Tarquinio il Superbo). Infine, l’espediente della tela ricamata che Filomela usa per rivelare la verità sarebbe un’elaborazione mitica del problema dell’origine della scrittura, anche se nello stesso Ovidio permane una certa ambiguità sul carattere visivo o testuale5 del messaggio ordito.È anche a causa di questo misterioso nesso, e quasi interscambiabilità tra testo e immagine in un punto nodale del mito di Procne che mi sono rivolto ai volgarizzamenti ovidiani, e alle loro illustrazioni.6 Bodo Guthmüller ha del resto messo in luce il capitale ruolo che tali volgarizzamenti rivestono nella trasmissione alla poesia e all’arte del Cinquecento dei miti antichi (dei quali le fabulae ovidiane si affermano già dal Medioevo come fonte principale).7 Proprio perché rivolti a un pubblico più ampio rispetto alle élite culturali umanistiche, i volgarizzamenti ovidiani ci permettono di ricostruire, seppure indirettamente, un livello di ricezione del mito antico che si può definire ‘medio.’ La loro importanza per la storia culturale risiede anche nel fatto che essi non si pongono mai come mediazione passiva della fonte, ma spesso anzi testimoniano della necessità sentita dalla cultura ‘di arrivo’ di adattare alle proprie esigenze il significato dei miti.In generale, si può già anticipare che uno dei motivi di interesse profondi per il mito di Procne, Filomela e Tereo da parte degli autori cinquecenteschi presi in considerazione, sarà collegato alla possibilità che esso offriva di attuare un’analisi e un’icastica rappresentazione delle passioni dell’animo, nodo che emergerà in maniera particolarmente evidente dalla metà del secolo. Ma prima di affrontare adeguatamente le fratture, saranno da prendere in considerazione anche alcune linee di continuità col passato rispetto ai processi di ri-narrazione e interpretazione della fabula che qui ci interessa.1. Persistenze Medievali: La Versione di BonsignoriÈ noto che i volgarizzamenti ovidiani possono servire, tra l’altro, anche per valutare la longue durée (o decorso ‘a pendenza lieve’) dell’interpretazione medievale di Ovidio. A questo proposito conviene richiamarsi innanzitutto alla versione in prosa elaborata tra il 1375 e il 1377 da Giovanni Bonsignori da Città di Castello, l’Ovidio Metamorphoseos Vulgare, che dopo più di un secolo di circolazione manoscritta viene data alla stampe a Venezia da Lucantonio Giunta, con un ricco corredo di xilografie. Il testo di Bonsignori fu più volte ristampato dopo l’edizione del 1497, e dunque “nel primo quarto del Cinquecento, fu l’unico volgarizzamento delle Metamorfosi disponibile sul mercato”;8 è possibile ipotizzare che, però, esso non sia scomparso dalla circolazione anche dopo l’uscita di più moderni volgarizzamenti.9La versione di Bonsignori presenta, nella sua parte narrativa, una certa vivacità novellistica, cui contribuiscono tanto l’uso del discorso diretto (in linea del resto con la teatralità, quasi da partitura tragica, dell’originale ovidiano) quanto la lieve patina ‘cortese’ avvertibile fin dall’incipit.10 (Entrambi questi caratteri si ritroveranno nei volgarizzamenti successivi e nelle varie riscritture del nostro mito). Fedele nella sostanza al contenuto dei versi ovidiani, Bonsignori vi opera dei piccoli aggiustamenti, allo scopo di ‘razionalizzare’ o ‘disambiguare’ il racconto. Uno di essi riguarda proprio la tela che Filomela tesse per rivelare alla sorella il “facinus” di Tereo. In Ovidio si legge che Filomela, muta e rinchiusa in una stallastamina barbarica suspendit callida telapurpureasque notas filis intexuit albis,indicium sceleris, perfectaque tradidit uni,utque ferat dominae, gestu rogat. illa rogatapertulit ad Procnen; nescit quid tradat in illis.euoluit uestes saeui matrona tyrannigermanaeque suae carmen miserabile legit.(Met. VI, 576–82)11I termini “notas” e “carmen miserabile” farebbero pensare a un messaggio scritto, ma il simbolismo visivo, icastico quanto sintetico, dei fili bianchi e rossi che rimandano alla purezza violata ed al sangue, insinua a riguardo una certa ambiguità. Su quanti intendono il manufatto in senso figurativo può avere influito l’affine funzione ‘di denuncia’ della tela di Aracne: nello stesso libro VI delle Metamorfosi, infatti, si narra di come Aracne avesse sfidato Minerva a una gara di tessitura, osando raffigurare nella propria tela le nefandezze degli dei, e di come a causa della sua ybris Pallade la trasformi infine in ragno.12Bonsignori opta decisamente per un’interpretazione visiva dell’opera di Filomela, la quale “era stata renchiusa nella selva e vedendo che ’l suo dolore ella nollo potea esprimere con la lingua, cominciò a tessere una tela ed a ppegnere con l’aco, nella quale dipentura e lavorio se contenea com’ella era separata dal padre, e come Tereo l’avea violata, e come li avea tagliata la lingua.”13 Alla sensibilità visiva dimostrata in questo passo dal volgarizzatore non fa riscontro però, nell’edizione del 1497, nessuna xilografia che illustri la sconvolgente storia del re trace e delle Pandionidi.Un’altra palese discordanza dal dettato ovidiano riguarda un particolare aggiunto da Bonsignori quasi a voler colmare una lacuna di ‘montaggio’ avvertita nel testo originale. Dopo il terribile coup de théâtre di Filomela che entra in scena scagliando in faccia a Tereo la testa mozzata di Iti, Ovidio descrive la serie di reazioni disperate del re, dalle urla all’inseguimento, passando poi senza soluzione di continuità alla metamorfosi:Thracius ingenti mensas clamore repellituipereasque ciet Stygia de ualle sorores;et modo, si posset, reserato pectore dirasegerere inde dapes semesaque uiscera gestit,flet modo seque uocat bustum miserabile nati,nunc sequitur nudo genitas Pandione ferro.corpora Cecropidum pennis pendere putares;pendebant pennis!(Met. VI, 661–68)14Bonsignori probabilmente avvertì uno iato, e lo colmò inventandosi un ‘fotogramma’ intermedio: “Allora Tereo gettò la mensa in terra e tolse ’l coltello e corse dietro alle due sorelle e, seguitandole, voleva remandare de fore del corpo el figliuolo mangiato, ed incresceali che illo stesso fosse sepultura del suo figliuolo. Prognes e Filomena li fugero denanti e per misericordia l’uno e l’altro si convertierono in ucelli diversi, e ciò fu nel fugire, perciò che per paura se misero a saltare per le finestre.”15 Questa aggiunta è molto importante, come vedremo, per tracciare una storia della stratificazione verticale dei testi e delle immagini nei volgarizzamenti delle Metamorfosi rispetto al nostro episodio. Benché fosse di fatto una traduzione della Expositio, lezione universitaria sulle Metamorfosi tenuta più di cinquant’anni prima a Bologna dal grammatico e retore Giovanni del Virgilio, l’autore aveva presentato l’Ovidio Metamorphoseos quale volgarizzamento diretto del testo ovidiano. Come osserva Guthmüller, esso “come tale fu recepito anche in seguito e si perse così la consapevolezza della sua vera origine,”16 il che favorì forse la sua persistente influenza in pieno Cinquecento e oltre, anche a livello dei significati complessivi attribuiti alla storia di Tereo e Procne.Ma qual era, appunto, l’interpretazione che Bonsignori forniva di quest’ultima? Essa, nella sua sezione per così dire pre-metamorfica, non era considerata una fabula ma un fatto storico, che nel suo racchiudere e tramandare un’esperienza umana poteva ammaestrare gli uomini ancor meglio di altre storie raccontate da Ovidio:17 “La presente allegoria se pone in questa forma: questa istoria fu vera sì come se dechiara nel testo, ma nella occisione de Itis le donne se partirono velocemente e tornaruno ad Atena, poi el padre loro morì per lo dolore; a poco tempo poi moriero le donne e lo reame remase a Eriteo, nepote del re Pandeon.”18Il sigillo realistico posto sul mito da Bonsignori avrà contribuito alla sua percezione in termini di verosimiglianza almeno psicologica, ma anche alla focalizzazione della vicenda sulla figura di Tereo. Le metamorfosi di Procne e Filomela sono infatti spiegate allegoricamente con le caratteristiche fisiche degli animali rispettivi;19 per Tereo, invece, l’allegoria era funzione del significato morale del personaggio. Secondo Bonsignori egli venne trasformato in upupa innanzitutto perché questa si ciba di cose fetide, come lui si era cibato delle carni del figlio, e poi perché ha la cresta, ricordo della corona regale e simbolo di superbia.202. Il Mito di Procne Nella Tradizione CavallerescaNel Quattrocento, il mito che qui ci interessa è presente nella tradizione anche lato sensu cavalleresca almeno in due importanti specimina, situati agli estremi in qualche modo opposti di un laboratorio canterino popolare e ‘seriale’ da un lato, e dall’altro di un raffinato sapere umanistico-cortese.21Nel Cantare di Progne e Filomena, conservato nel codice Riccardiano 2733, l’autore Jacopo di Mino22 segue fedelmente i versi delle Metamorfosi (ad esempio, i ricami fatti da Filomena sulla tela rivelatrice sono “lettere,” “miserabil verso”), dimostrando di comprenderne bene il contenuto poetico. L’amplificazione è moderata e segue il gusto cavalleresco nella sua declinazione canterina: vi si insiste infatti sulla descrizione delle bellezze femminili; si ampliano i lamenti esistenti e se ne inseriscono ex novo (Ugolini segnala in particolare quello di Pandione); si indugia negli anacronismi preziosi, puntando inoltre, per quanto possibile, a un’attenuazione della generale atmosfera di squallore e degradazione che in crescendo si sviluppa nella storia ovidiana. Ad esempio, la stalla nella quale Tereo rinchiude Filomela dopo averla stuprata, diventa nel cantare di Jacopo un “alto palagio,” una rocca posta sulla cima di una montagna.In direzione del tutto opposta, oltre che autonoma e originale, procede Matteo Maria Boiardo nella storia di Ranaldo a Rocca Crudele (Orlando innamorato, I, 8, ottave 25 e seguenti),23 concentrato di atrocità degno delle gesta di un Gilles de Rais. In essa Ranaldo viene fatto prigioniero in un orribile castello madido di sangue, con teschi e cadaveri di uccisi a ornarne la facciata. La vecchia castellana gli narra quindi la vicenda all’origine dell’“orribile usanza” che segnerà di lì a poco la sorte del paladino. La rocca un tempo era sede di Grifone, signore di Altamira, sposo alla bellissima Stella. Ella suscitò le brame di Marchino, sire di Aronda, la cui moglie altri non è che la vecchia narratrice. Il subitaneo accendersi della passione di Marchino per Stella è rappresentato da Boiardo in modo simile a quello di Tereo nei confronti di Filomela. Ucciso a tradimento Grifone e massacratone la corte, Marchino continua il suo sgradito corteggiamento a Stella. Da ciò che segue si comprende come in questo episodio Boiardo, ponendosi in gara con Ovidio e Seneca,24 eleva al quadrato il tema della vendetta di Procne. Nell’assassinio dei figli di Marchino da parte di sua moglie assistiamo a un primo raddoppiamento, poiché la madre ne uccide non uno ma due, e senza alcun aiuto:39Dui fanciulleti avea di Marchino;Il primo lo scanai con la mia mano;Stava a guardarmi l’altro picolino,E dicia: “Madre, deh, per Dio, fa’ piano!”Io presi per li piedi quel mischinoE detti il capo a un saxo proximano.Te par che io vendicasse il mio dispeto?Ma questo fu un principio, e non lo effeto.Come si vede, il potenziale patetico del “Mater, mater” ovidiano (Met. VI, 640) è ben sfruttato nella variazione di Boiardo (anche se l’originale, nella sua mirabile asciuttezza, rimane insuperato). Segue, negli stessi termini espressionisti, il racconto della cucinazione e imbadigione delle carni dei figli, con il finale pasto tecnofagico, modellato sul racconto di Ovidio. Mentre la moglie di Marchino si assenta per cercare aiuto contro il marito (che odia per i suoi propositi di tradimento), Stella fa la ‘parte’ di Filomena:43Ma non fu questa cosa cossì prestaChe, comme io fui partita dal castello,La cruda Stella, menando gran festa,A Marchin va davanti in viso felloE li apresenta l’una e l’altra testaD’i fioli, che io servai dentro a un piatelo.Benché per morte ciascuna era trista,Pur li cognobe il patre in prima vista.Stella, come da copione, rende cosciente Marchino di aver mangiato le carni dei propri figli. A questo punto Boiardo recupera il tema del conflitto tra passioni opposte,25 già presente in Ovidio e che verrà sviluppato con particolare forza dai volgarizzatori e tragediografi cinquecenteschi:44…Ora ha gran pena il falso traditore,Ché Crudeltà combatte con Amore.45Lo oltragio smisurato ben lo invitaA far di quella dama crudo stracio;Dal’altra parte la faza fioritaE lo afocato amor li dava impacio.Delibra vendicarsi, ala fenita;Ma qual vendeta lo porìa far sacio?Ché, pensando al suo oltragio, in veritateNon v’era pena di tal crudeltade.La pena in realtà viene subito trovata, ed è una disgustosa miscela di sadismo, stupro e necrofilia: Stella viene infatti legata al cadavere di Grifone in una sorta di osceno amplesso, e così violentata; poi uccisa e violentata ancora. La contro-vendetta del marito, in Ovidio ‘sospesa’ dalle subitanee metamorfosi, è dapprima in un certo senso anche qui mimetica, poiché il crudele Marchino impone a Stella la propinquità con l’oggetto d’amore morto, così come era stato imposto a lui facendogli letteralmente incorporare le carni dei figli. In seguito le atrocità si accumuleranno, per così dire, gratuitamente; anche lo stesso Marchino dopo varie peripezie finirà smembrato.26 (A latere, osserviamo che in nessuna delle edizioni illustrate a noi note dell’Orlando innamorato si trova una visualizzazione dell’episodio, e forse pour cause).Alla fine del secolo, nell’influente commento dell’umanista volterrano Raffaele Regio alle Metamorfosi latine (Venezia 1493), proprio al personaggio di Tereo era riservata una delle poche eccezioni moraleggianti della sua lettura, quasi totalmente storico-erudita e stilistico-letteraria. Il Regio sosteneva che Ovidio aveva inteso rappresentare, nella figure del re trace, gli estremi di barbarie cui l’uomo può giungere: “Maximam hominis barbariem ostendit poeta qui sostinuerit virginem et solam et sibi creditam et patrem et sororem et in primis Deos implorantem violare.”27 Si potrebbe pensare che Boiardo, nella sua riscrittura, si allinei in qualche modo a una simile interpretazione morale-antropologica (il cui centro di interesse è però spostato decisamente sulla psiche femminile). Tuttavia, proprio la reductio ad absurdum dell’abominio da lui operata fa sospettare che anche in questo caso si sia di fronte a una reazione di difesa nei confronti del disturbante testo originale. In altre parole l’estremizzato atteggiamento agonale nei confronti dei modelli potrebbe rivelare, con la sua iperbolicità, un prevalente carattere di esercizio letterario nella “brutal intertextuality” dell’episodio di Ranaldo a Rocca Crudele.Anche Ludovico Ariosto riecheggerà alcuni passi della versione ovidiana del mito di Procne nell’Orlando furioso, e precisamente nel contesto della patetica storia di Olimpia. La bellissima fanciulla, perseguitata da Cimosco, si innamora di Bireno e con l’aiuto di Orlando lo libera, ma dopo le nozze egli l’abbandonerà, lasciandola sola e piangente su un’isola deserta. Benché il modello principale seguito da Ariosto sia qui l’Ovidio delle Heroides, all’inizio del canto X, nel contesto di un raffinatissimo montaggio intertestuale che coinvolge come al solito autori classici e moderni, alcuni tratti di Bireno sono esemplati proprio su Tereo quale figura di maschio traditore, lascivo e simulatore. Ad esempio il rapido decadere del suo amore per Olimpia e il violento e subitaneo accendersi della passione per la giovanissima figlia di Cimosco riecheggiano il comportamento di Tereo nei confronti di Procne e Filomela:Non pur di lei Bireno s’inamora,ma fuoco mai così non accese esca,né se lo pongan l’invide e nimichemani talor ne le mature spiche;come egli se n’accese immantinente,come egli n’arse fin ne le medolle.28Allo stesso modo, l’atteggiamento di favore di Bireno nei confronti della sventurata fanciulla è ascritto a suo onore, esattamente come Tereo alla corte di Pandione faceva la figura del marito devoto e premuroso:E se accarezza l’altra (che non puotefar che non l’accarezzi più del dritto),non è chi questo in mala parte note;anzi a pietade, anzi a bontà gli è ascritto.29Anche l’amara considerazione morale in cui Ovidio interviene per commentare la situazione da lui stesso narrata (“pro superi, quantum mortalia pectora caecae noctis habent”30) è apprezzata da Ariosto, che coglie al volo l’opportunità di riconiare un’apoftegma deprecativo sulla pochezza e fragilità del “giudicio uman”: “Oh sommo dio, come i giudici umani | spesso offuscati son da un nembo oscuro!” (Of, X, 15, 1–2).Sebbene non si possa affermare che il mito di Procne abbia una parte consistente nell’Orlando furioso,31 è comunque significativo che il dettato ovidiano sia stato utilizzato da Ariosto, con la consueta raffinatezza letteraria, per dar vita a un carattere psicologicamente credibile, anche se affatto diverso dall’originaria brutalità barbarica del trace Tereo.3. Procne Alla Prova del “Verso Vulgar,” e Dell’illustrazioneNiccolò degli Agostini, col suo Ovidio Metamorphoseos en verso vulgar, pubblicato a Venezia nel 1522, fu il primo ad offrire un volgarizzamento in versi delle Metamorfosi. Riversando i miti antichi negli stampi dell’ottava cavalleresca, Agostini ricalcava sostanzialmente la versione in prosa di Bonsignori,32 le cui allegorie sono peraltro riprodotte alla lettera. La fedeltà al suo ipotesto comprende anche i minuti particolari, ad esempio l’interpretazione visuale del messaggio textile di Filomela:49Ricamò prima in lei come guidataFu ne la nave dal falso ThereoEt poi come a quel loco era smontataSopra la riva del gran mare EgeoE tutto a punto il caso atroce, et reoSenza nulla lassarvi.33La storia di Procne e Filomela risulta particolarmente curata da Agostini, che la adatta al gusto del poema cavalleresco coevo e della cultura cortese. Benché continuatore dell’Orlando innamorato, del cui sèguito aveva già pubblicato a questa altezza il quarto e il quinto libro, Niccolò nel nostro caso sembra più vicino al Cantare di Progne e Filomena. In Agostini, però, assistiamo non tanto, o non solo, a un tentativo di attenuare, quanto forse di umanizzare i personaggi e le situazioni. Ciò si avverte in particolare in una scena in cui egli si discosta tanto da Ovidio quanto da Bonsignori.Approdato in patria dopo il viaggio per mare da Atene, Tereo, licenziati i marinai, conduce Filomena in un “frondoso, et folto bosco.” La fanciulla, che non ha ancora nulla da temere, esorta Tereo ad affrettarsi per raggiungere al più presto la sorella. Allora il re trace, “che più tener nel petto | Occulta non potea la fiamma ascosa | Come l’hebbe condotta ove a lui piacque | A farli noto il suo disio non tacque.”34 Tereo si comporta cioè come un cavaliere innamorato, che manifesta la sua passione entro un codice poetico cortese-stilnovistico:24Et a lei disse: “La tua gran bellezzaCh’in donna alcuna anchor mai fu maggioreLa vaga leggiadria, la gentilezzaCh’io veggio in te, m’ha sì preso d’amoreCh’altra nel mondo poi menor s’apprezzaE già t’ho data l’alma, el spirto, el coreNé viver non potrei senza il tuo visoChe m’ha, vivendo in lui, da me diviso.”35Dopo aver esortato Filomela a non preoccuparsi di Procne, che non verrà mai a sapere del loro amore, Tereo svolge una vera e propria autoanalisi passionale (nella quale sono presenti tuttavia alcuni segnali stridenti che la pongono sotto una luce sinistra):26Gran passion mi fa dir ciò ch’io dicoCh’esser non posso più costante e forteA quel che per il tuo volto pudicoPattisco, ahimé, che mi conduce a morteEt meglio è assai ch’io sia di te nimicoChe di me stesso, da che l’empia morteMi sforza a far quel ch’io non vorrei farePer volermi da morte liberare.27Agiutarmi da quel ch’a te non costaPòi facilmente, dandomi la vitaSendo soletti in questa selva ascostaSenza temer d’alcun, dama polita,Et se a la voglia mia sarai dispostaCome ogni donna suol saggia e graditaA la tua sempre anch’io serò costanteVero cogniato, sposo, et fido amante.Filomena, che “per meraviglia, e tema avea già spenta | ogni vaghezza di sua faccia ornata,” risponde con un’allocuzione patetica, simmetricamente composta di quattro ottave (29–32). Questo episodio esemplifica adeguatamente, peraltro, uno dei caratteri più vistosi del volgarizzamento di Agostini, cioè la spiccatissima propensione per il discorso diretto e la scena dialogata, oltre che per i lamenti (che già abbondavano nel Cantare di Progne e Filomena). Non solo Agostini riprende le occasioni dialogiche presenti in Ovidio e in Bonsignori, ma ne aggiunge di nuove, dimostrando di aver colto in pieno il potenziale drammaturgico della materia.Una certa teatralità si riscontra anche nella xilografia che illustra il nostro episodio (fig. 2). Le scene rappresentate nei due riquadri (poste in un rapporto grossomodo di causa-effetto, come spesso accade anche nelle illustrazioni del volgarizzamento di Bonsignori) sono infatti assai dinamiche e di forte impatto emotivo (si noti, ad esempio, come Tereo quasi inciampi nella testa del figlio), con un’attenzione particolare alla pregnanza del gesto.Figura 2. Artista ignoto, Procne e Filomela uccidono Iti; Tereo infuriato insegue Procne e Filomela che si trasformano in uccelli. In Niccolò degli Agostini, Tutti gli libri de Ovidio Metamorphoseos tradutti dal litteral in verso vulgar (Venezia, Niccolò Zoppino e Vincenzo di Paolo, 1533), c. 64r, xilografia. (Milano, Biblioteca Civica Trivulziana © Comune di Milano—tutti i diritti di legge riservati.)Detto questo, però, altrettanto evidente appare la sostanziale non referenza dell’immagine rispetto al testo di Agostini; ad esempio la metamorfosi delle due sorelle (si notino le braccia mutate in ali) avviene qui mentre sono inseguite da Tereo, come in Ovidio, e non dopo essere saltate dalle finestre. Ancora più interessante la prima sezione (più angusta, a significare forse l’angolo remoto del palazzo in cui le Pandionidi conducono Iti per ucciderlo), la quale reca evidenti nessi con l’originale ovidiano. Procne è rappresentata nell’atto di pugnalare il figlio nel punto esatto indicato da Ovidio, cioè tra il busto e il fianco;36 la sorella sta invece afferrando Iti per i capelli e avventando il pugnale su di lui. Un altro particolare è spia del rapporto (diretto o mediato che sia) dell’illustratore con il dettato letterale di Met. VI, 242, benché ne rovesci il contenuto denotativo. Laddove infatti si dice che Progne “nec uultum uertit,” “non distoglie il viso” nel trafiggere il figlio alla sua sinistra (notazione che tanto Bonsignori quanto Agostini ignorano del tutto), l’immagine mostra invece esattamente la madre che guarda nella direzione opposta, il volto atteggiato alla massima afflizione.Si può ipotizzare che l’incisore, non trovando nell’apparato iconografico del Bonsignori un modello per visualizzare l’episodio, abbia fatto ricorso alle illustrazioni di un Ovidio latino.37 Improbabile che abbia potuto compulsare il testo ovidiano in lingua originale; anche in questo caso, oltretutto, rimarrebbero da spiegare le motivazioni dell’infedeltà. Oltre a una banale incomprensione dell’espressione succitata, intesa appunto al contrario, si può forse pensare che l’artista—o chi ne abbia eventualmente guidato la mano—esprima in tal modo una propria opinione sul racconto: una madre non può essere snaturata al punto da riuscire a guardare in faccia il figlio mentre lo ammazza. Cogliendo da un particolare narrativo ovidiano lo spunto per una critica al medesimo, l’inventor avrebbe scelto in altre parole di concedere a Procne almeno l’attenuante della pietà materna, bilanciando in tal modo l’obbrobrio morale che il testo non nascondeva. La scelta potrebbe essere peraltro in qualche modo autorizzata dal gesto raffigurato in un altro luogo delle Metamorfosi, benché in esso i rapporti parentali siano rovesciati rispetto alla situazione descritta supra: nel libro VII, infatti, sono le figlie di Pelia, raggirate dalla maga Medea, che non riescono a guardare il proprio padre mentre lo pugnalano.38Ma i moventi della scelta si possono anche ricercare nelle esigenze del codice figurativo: l’illustratore avrebbe sentito il bisogno di caratterizzare visivamente la difformità, quasi l’antitesi, degli atteggiamenti delle due figure intente a uno stesso atto delittuoso: la furia disinibita di Filomela verrebbe così a significare una motivazione più diretta nell’omicidio, e magari un legame meno stretto con la vittima rispetto all’altra donna; la Pathosformel scelta per Procne, simmetricamente, le attribuirebbe invece una profonda lacerazione interiore. Il fruitore del volgarizzamento, in tal modo, avrebbe avuto chiare alcune polarità emotive della vicenda ancor prima di addentrarsi nel testo.39Concludendo, l’Ovidio Metamorphoseos di Agostini parrebbe fotografare un primo stadio di modificazione dei motivi di interesse per il nostro mito nella cultura del Cinquecento. Infatti, pur rimanendo in una certa misura ancora attivi i significati allegorici medievali, i modi di rappresentazione mutano parzialmente: tanto Tereo quanto Procne hanno qui perso, ad esempio, la loro rigidità di marionette, nella direzione di un maggiore approfondimento psicologico e comportamentale.404. Il Salto di Dolce e Quello di RusconiNel 1548 il prestigioso editore veneziano Gabriele Giolito richiede il privilegio per una nuova edizione illustrata, in volgare, di Ovidio. Il traduttore era il noto letterato Lodovico Dolce, che dovette affrettare alquanto i tempi di redazione per motivi di concorrenza: Giovanni Andrea dell’Anguillara stava infatti parallelamente lavorando a una sua riscrittura delle Metamorfosi. Ciò portò, oltre ad alcuni errori di traduzione, a una non perfetta calettatura del testo con l’apparato illustrativo, che sappiamo con certezza essere opera di Giovanni Antonio Rusconi. In ogni caso, quella che uscì a Venezia nel 1553 per i tipi di Giolito fu un’edizione ovidiana destinata a fare epoca, innovativa e d’impatto tanto sotto l’aspetto letterario quanto (forse soprattutto) figurativo.41Dolce fu il primo a rifarsi direttamente e principalmente al testo ovidiano. Benché i quindici libri delle Metamorfosi vengano nel suo volgarizzamento raddoppiati, con la conseguente ridistribuzione della materia di un libro su due-tre “canti,” l’ampliamento non corrisponde a un’imitazione creativa:
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