Artigo Acesso aberto Revisado por pares

I ‘Classici’ di Giorgio Ficara

2022; American Association of Teachers of Italian; Volume: 99; Issue: 1 Linguagem: Italiano

10.5406/23256672.99.1.06

ISSN

2325-6672

Autores

Paolo Cherchi,

Tópico(s)

Italian Literature and Culture

Resumo

L'occasione di questo review article è un'opera di Giorgio Ficara, Classici in cammino (Venezia, Marsilio, 2021, pp. 184), libro che si inserisce in un genere non molto praticato ma che comincia ad imporsi come un'alternativa al tradizionale saggio critico e che potrebbe prendere il nome di “saggio di critica saggistica”. Una recensione di taglio normale si presterebbe poco bene ad illustrare la ricchezza e la novità di tale “critica saggistica”, mentre il review article allarga alquanto i limiti entro cui il recensore può muoversi consentendogli di fare considerazioni proprie stimolate dal testo che recensisce.Formalmente il libro si presenta come una raccolta di saggi, e in quanto tale, richiede sempre una giustificazione fra cui la più frequente, ma anche la meno confessabile, è il timore che i saggi singoli si disperdano una volta sommersi nel vasto mare della lava accademica. Parliamo di ‘raccolta’, ma non possiamo dire con certezza che lo sia, perché manca ogni indicazione esplicita in questo senso. Tuttavia ci autorizza a pensarlo il fatto che gli elementi che la compongono siano di natura eterogenea: alcuni hanno il taglio classico del saggio, mentre altri, specialmente nella seconda parte, sembrano degli “elzeviri”, rapidi, incisivi e in qualche caso perfino divagatori. Però a lettura finita risalta chiara la chiave della confezione e dell'organicità di questo libro: è la combinazione dell'unità dell'argomento di fondo e il fatto che saggi ed ‘elzeviri’ abbiano una stessa matrice nel modo di concepire l'esercizio della critica letteraria. E vediamo anche un altro pregio di questo libro: in quanto ‘raccolta’, consente una lettura ‘ad apertura di pagina’, senza dover cominciare sempre da un determinato punto per arrivare ad un altro: qui ogni punto presuppone un discorso generale, che però appare sempre nuovo da qualsiasi angolo lo si guardi. Tutto questo per dire che è un libro che invita alla lettura e quindi alla rilettura non appena si volta l'ultima pagina.E allora ci appare chiaro che l'argomento è sostenuto per un lungo itinerario tracciato con ferma consapevolezza, anche se a prima vista sembra costruito a spezzoni e con interventi rapsodici. Ne risulta una doppia modalità di lettura: una continua e l'altra ad apertura di pagina. Da ciò un duplice paradosso: la lettura continua prova l'irriducibilità dell'argomento ad una formula univoca, mentre quella saltuaria conferma che il tentativo è sempre affascinante proprio perché il risultato non è mai definitivo. Il dramma intellettuale della ricerca intentata sempre ex novo crea un personaggio che segue e narra questi tentativi ed è un mediatore speciale che si propone, certo, di informare i suoi lettori come ogni buon critico deve fare, ma nel narrare quel dramma viene coinvolto fino al punto da diventare una sorta di co-protagonista che dialoga e discute con i personaggi che vuole rappresentare, e il risultato è un tipo di critica nuova che chiamiamo ‘saggistica’, prendendo in prestito la definizione dello stesso autore. Ci troviamo dunque davanti ad un libro fuori dall'ordinario e davvero ‘straordinario’, e da quanto abbiamo già detto si capisce che chi lo legge tornerà a rileggerlo per apprezzare anche il modo con cui è confezionato e strutturato. Basti notare soltanto il fatto che il libro si apre con un saggio su “un maestro” del passato e si chiude con vari saggi su altri maestri diretti dell'autore per capire che la struttura presenta in buona parte il tema principale del libro—il rapporto letteratura/maestri—, e ci indica che i lettori privilegiati sono anche quelli ai quali il libro è primariamente indirizzato, e questi sono, appunto, i critici letterari. Tutto questo intreccio di temi e di pubblici emergerà—hoc est in votis—dalla nostra lettura, e sarà chiaro quale ruolo venga assegnato ai maestri nel valorizzare i “classici” e proporli come valori culturali inesauribili.E per “contestualizzare” questo libro, ricordiamo che esso vede la luce in un momento in cui la critica letteraria è piena di dubbi e di ripensamenti sulla legittimità della sua funzione nel mondo attuale. Oggi, parlare di classici, rivalutarne il ruolo, capire perché essi permangono è un atto di sfida nobile e non chisciottesca: i classici non sono mulini a vento scambiabili per giganti ostili, e lo conferma il fatto che spuntino anche dove sono più ostracizzati, come accade, ad esempio, nella letteratura delle ‘avanguardie’, ossia in quei movimenti che si autoproclamano “noi siamo la nostra tradizione”. Leggendo gli avanguardisti si scopre magari che l'oltranzoso Altazor di Huidobro ha un sostrato dantesco e biblico, o che nell'Ulysses di Joyce scorre qualche goccia del sangue di Virgilio e di Ovidio. Ma forse non dovremmo dare troppa importanza a simili moti di iconoclastia dal momento che potrebbero essere ribellioni temporanee e che ritornano nei periodi di crisi in cui il passato incombe come una nuvola soffocante. In ogni modo è un problema facilmente spiegabile e senz'altro minore e rispetto a quello che sembra meno chiaro, e cioè stabilire se i classici favoriscano la produzione di nuovi classici anche fra i nostri stessi contemporanei, perché ciò proverebbe decisamente che non basta una stagionatura millenaria per creare i classici, ma ci deve essere un qualche altro elemento, una qualche vitalità che assicuri agli autori una permanenza nel tempo per iscriverli al rango dei classici. In altre parole, il nostro mondo moderno e contemporaneo può produrre dei classici? Si capisce, allora, che la stessa nozione di cosa sia un ‘classico’ debba modificare almeno una delle qualità inerenti alla nozione di classicità, quella appunto, molto diffusa, che è il suo essere antica. Risulta anche indebolito di molto il vecchio autoschediasma secondo cui i classici sono gli autori che si leggono in ‘classe’, visto che i canoni didattici raramente includono testi contemporanei e moderni. Bisogna dunque intendersi sul modo di definire un “classico”, ed è questo uno dei temi che Ficara affronta nel primo capitolo e vi ritorna negli altri, correndo il grande rischio di dire molto senza aggiungere niente o poco di nuovo, vista l'ingente bibliografia sull'argomento. E anticipiamo subito che l'autore non solo evita questi pericoli ma addirittura trionfa su di essi con una visione originale e coraggiosa. Il primo saggio, di natura generale e teorica, s'intitola “Gli amici del cuore”, titolo che offre un primo e indispensabile requisito del ‘classico’, ossia una quidditas che suscita un legame di intima amicizia tra un'opera e il suo lettore. Ficara ci sorprende ammettendo in limine che la formula esibita in quel titolo non sia di suo conio, ma ricalchi, variandola, quella che Petrarca usava con amici del cuore ai quali indirizzava perfino delle lettere che i destinatari non avrebbero mai letto perché erano Virgilio e Cicerone, vissuti secoli e secoli addietro. L'ammissione che la formula abbia antenati tanto remoti offre la conferma che Petrarca sentiva come “vivi” autori lontanissimi dai suoi tempi, e tuttavia li trova ancora udibili e senz'altro autorevoli, e la stessa ammissione prova che Ficara a sua volta ascolti e impari da Petrarca: si percepisce così l'esistenza di un legame che vince il tempo. Una volta vista la campata larghissima di quel cammino e dei ponti che consentono un'ininterrotta continuità con fenomenologie diverse per ogni epoca, capiamo anche che quell'ammissione è una strategia per dirci in buona parte cosa sia un “classico”: è un autore che, per quanto lontano nel tempo, riveriamo e amiamo come amico con il quale dialoghiamo in modo che ci arricchisce e perfino ci inorgoglisce tanto da riconoscerlo pubblicamente come un nostro maestro e amico. È importante tenere a mente tali considerazioni perché presentano fin dall'esordio i cardini su cui s'impernia questo libro.Il saggio procede, dunque, con una rassegna delle definizioni proposte per stabilire cosa sia un classico. Il problema era vivo già nel mondo antico e Ficara lo rileva in autori come Orazio e Gellio, nonché fra gli umanisti, fra gli animatori della querelle des anciens et des moderns, fra i romantici, e perfino nei nostri contemporanei Curtius, Gadamer, Calvino, Fortini e infiniti altri che sfilano nelle pagine di Ficara, dense di vaste letture. Dietro la rassegna di tante proposte sentiamo la regia di un sapere che evita il metodo espositivo della “rassegna”—alfabetica o cronologica o tematica che sia—e preferisce cogliere l'essenza dei problemi che spesso riaffiorano nel tempo e creano un sistema di punti obbligati sui quali si snoda la secolare discussione su cosa sia un classico. Eccone alcuni che ricorrono con maggior frequenza: se “classici” non si nasce ma lo si diventa, a che punto nel tempo gli si può conferire lo status di classico? Per quanti lustri e secoli si deve invecchiare per meritarsi tale titolo? Si deve necessariamente appartenere al passato? E se questo è il caso e se un indicatore della “classicità” è la permanenza nel tempo, è possibile che questa sussista senza rigenerarsi e ammettere l'esistenza di nuove leve di classici anche fra i moderni? E se classici sono gli autori antichi, è possibile distinguere “classici” maggiori e classici minori e addirittura chiamare “classici” anche autori antichi ma di rango infimo? E perché periodicamente si contesta il magistero di quei classici che in certi periodi costituiscono dei modelli imprescindibili? E chi li contesta è sempre esente da ogni debito rispetto a quei maestri che con le loro opere impongono dei modelli? Sarà vero che ai classici ha giovato la “scrittura” che sopravvive ai tempi? Grammata sola carent fato, mortemque repellunt, diceva Rabano Mauro, ma qualche moderno ritiene che la lettera ossifichi ciò che vuole significare, mentre la parola orale è più comunicativa perché tanti elementi, dalla voce al ritmo, hanno un potenziale di significato che la parola scritta non ha. Questi sono alcuni dei problemi che Ficara riporta nel saggio “teorico” che apre la raccolta. E signorilmente li esamina, ne estrae le tesi fondamentali, ma non si impegna a refutarli e neppure a farli propri: tutti hanno ragione, almeno per qualche aspetto, e tutti sono approssimativi. Questo atteggiamento imparziale nasce dalla considerazione che “classico” non sia un “concetto”, passibile di una definizione logica, bensì un “valore” che si riesce a definire con difficoltà, che è soggetto a mutamenti e che proprio per questo è storico, vive nella storia e cammina con essa. I valori si vivono, ma è difficile racchiuderli in definizioni che indichino il genus e la differentia e tutti gli altri elementi logici che arrivino a dirci l'essenza o individualità precisa del classico. È vero che esistono i canoni che servono a dare stabilità ai valori, ma anch'essi hanno una validità relativa, e molti canoni che erano in auge nel primo Duecento risultano addirittura inspiegabili nel Seicento e nel Novecento. Consideriamo “classici” e quindi “permanenti” opere come la Commedia dantesca, ma dobbiamo spiegarci come e perché per tanti secoli fu vista come un rudere di un mondo superstizioso e ordinatissimo, valido fino a quando dominava la cultura della Scolastica. Non lascia di sorprendere il fatto che il Don Quijote venne considerato un'opera assolutamente ridicola dai critici contemporanei, e solo a partire dalla metà del Settecento salì al rango dei capolavori e nell'Olimpo dei “classici”; Petrarca, lodatissimo per secoli, riusciva indigesto ai Romantici; Metastasio, una volta ritenuto “il Sofocle moderno”, oggi recupera ammiratori ma stenta ad entrare nel novero dei “classici” . . . e la storia offre esempi infiniti di casi simili. Albert Camus una volta disse “io amo la giustizia, ma fra la giustizia e mia madre, io preferisco mia madre”; e la maggior parte delle persone direbbero la stessa cosa, perché “la giustizia” è un valore legato alla cultura, mentre “la madre” è un valore legato alla natura, per cui il primo può avere un valore epocale ma non assoluto, mentre il secondo rappresenta un valore “naturale” e pertanto non è soggetto ad oscillazioni e mutamenti. I classici, insomma, costituiscono un valore culturale al quale veniamo educati dai nostri maestri, i quali ci insegnano a dialogare con i maestri dei maestri, con i classici, insomma, e ricavare da loro alcuni insegnamenti di vita in generale, in modo da renderli nostri nella misura del possibile, e in questo processo di apprendistato cresce in noi l'amore che ce li rende più vicini e inseparabili. Questo amore al quale veniamo educati dai maestri è il criterio più autentico per stabilire l'esistenza di un “classico”, e diventa anche lo strumento più fruttuoso per immetterlo nel nostro vivere.Ma l'amore deve avere le sue fondamenta in qualche valore, come può essere la bellezza o la virtù; sennonché anche questi sono valori di lunga durata però mutevoli. Virgilio era un classico per Dante e per Petrarca perché rappresentava un livello impareggiato di perfezione stilistica, e per giunta ‘monumentalizzava’, cioè elevava al piano quasi metafisico il valore della romanitas, dell'Impero e della sua funzione di creatore della pace universale, oltre che a consacrare un modello di eroe come Enea. Ma per un Marino il titolo di classico si confaceva meglio ad un poeta come Ovidio perché con la sua poesia aveva colto il principio universale che tutto ciò che vive prende una forma, e questa forma permane anche quando si trasforma in altra vita dietro la legge della metamorfosi: Dafne che si trasforma in alloro, conserva sempre la forma slanciata del corpo anche quando si trasforma nel fusto di una pianta. In altre parole: i classici sono gli autori che in una forma o nell'altra ci fanno percepire le “essenze”, o diciamo anche “gli ideali” che alimentano il vivere e che l'arte fissa nella parola, o almeno aspira a farlo per salvare quel ‘vivere’ dalla corrosione del tempo.Queste, mi pare, siano le conclusioni alle quali Ficara perviene. E, naturalmente, presentano delle insidie. Prima fra queste è la possibilità di cadere in un relativismo disperante, ma è anche una possibilità che il “dialogo” fra autore e lettore riesce a sventare, spostando il discorso dal piano del “giudizio”, tipico della critica letteraria, al piano dei contenuti del dialogo che verte non tanto sul valore poetico in sé quanto invece sulle conquiste intellettuali che risultano dal modo in cui quel valore viene articolato con il fine di rendere i lettori partecipi di ciò che li accomuna nel mistero del vivere. Non si tratta, insomma, di valutare i risultati artistici raggiunti, quanto invece cercare di cogliere la genesi del processo che porta a quei risultati. È un'operazione ardua perché mira ad identificare il punto in cui un valore culturale prende una vita singolare sotto veste artistica. Per spiegarci: cogliere il momento in cui l'ideale della romanitas in Virgilio diventa visibile nel viaggio di Enea da Troia alle sponde del Lazio. È un punto delicatissimo e tanto difficile come quello che affronta il filosofo che voglia determinare il punto in cui l'anima si attacca al corpo, la potenza all'atto, il filo del rasoio alla lama. Cogliere quel confine significa capire come un'opera si leghi alla cultura coeva, e come tocchi un valore condiviso da generazioni e come l'artista lo porti alla luce anche dove non era viva la consapevolezza della sua esistenza. Ed ecco che un inconscio collettivo prende una fisionomia concreta e inconfondibile, proponendosi poi come il modello di un ideale condiviso da un'intera cultura. È un'operazione che prospetta un nuovo modo di fare critica in cui il vecchio professionista, provvisto di tutte le regole e strumenti del mestiere, si trasforma in un interlocutore attivo che, nei casi migliori, riesce a “con-creare” un discorso sui problemi impostati dal testo ma la cui soluzione si allarga a comprendere considerazioni generali che interessano vaste cerchia di lettori; e questo consenso conferma, seppure con una buona dose di empiria, che ogni affermazione fatta in questo campo è condivisa, o può esserlo, in ampi circoli. È il tipo di critica saggistica che trova in questo libro un autore impegnato a spiegare “dal di dentro” o con “empatia” i poeti che legge, e questo voler capire le ragioni profonde della creazione lo porta a divagare su contesti riguardanti temi fisici e metafisici, cioè ad incorporare l'arte nella cultura in modo da mostrare come letteratura e vita si sostengano a vicenda.Impostato così l'ordito del libro, si entra nella sua materia specifica. Il primo saggio, “Il maestro perfetto: Dante Purgatorio XXI” (pp. 39–48), introduce un classico nella veste di maestro, quasi a voler riprendere due argomenti già presentati, il maestro e la perfezione, avere una conferma di alcune affermazioni fatte al livello teorico. Il canto racconta del timore che Dante sente quando la montagna del Purgatorio trema come scossa da un terremoto, e ne chiede la ragione a Stazio. Lui risponde che gli uomini possono conoscere il perché (il quia) delle cose ma non l'essenza (il quid), il loro essere in sé. È in sostanza la stessa lezione impartita nel canto III del Purgatorio con il celebre «state contente humane genti al quia», ma che Dante porta ad un altro livello proprio nel canto dell'incontro con Stazio. Virgilio, da poeta pagano, conosce i limiti delle possibilità umane e le accetta e ritiene che la poesia le appaghi; ma nell'altra vita, attraverso i personaggi Dante e Stazio, constata che esiste una verità più alta che la poesia non può cogliere e che si ama in modo diverso: è la verità spirituale che nell'affabulazione dantesca si attinge solo “bruciando” la poesia, come accade ai poeti Arnaut Daniel, Guinizzelli e a Dante stesso nel momento in cui deve attraversare il muro del fuoco, oltre il quale la ricerca dei beni più alti è affidata alla teologia. Ciò non comporta una svalutazione di Virgilio: dopo tutto egli è il maestro di Stazio e questi a sua volta insegna a Dante cose che Virgilio non sapeva. I classici, insomma, “camminano”, e lasciano ai loro posteri un'eredità che sentono di dover mettere a frutto perché a questo li spinge il senso d'amore e di riconoscenza che avvertono per chi li ha educati ad amare la poesia. E la poesia è un valore storico, per cui procede ponendosi sempre traguardi che supera quando riesce a fissarli in modo che i posteri possano recuperarli non tanto per il loro valore intrinseco bensì per la testimonianza dell'aspirazione sempre umana di vincere il tempo, il vero nemico dell'uomo. Cambia l'essenza che si ricerca, ma permane l'ansia di conoscerla e di coglierla, ed è questa aspirazione che caratterizza i classici di tutti i tempi: il passaggio da Virgilio a Stazio e a Dante mostra proprio questo fenomeno che accomuna tutti i classici pur riconoscendo la diversità dei rispettivi obiettivi. La Rivelazione ha imposto una dimensione limitativa diversa ai ricercatori di valori assoluti perché questi ormai si sono trasferiti nella sfera spirituale, come dimostra il canto di Stazio. Il quid delle cose coincide con la figura insondabile di Dio e con l'eternità incommensurabile che sovrastano l'intelletto umano. Ficara ha scelto il canto di Stazio perché illustra simultaneamente la permanenza e il superamento di Virgilio: “il maestro che tutto seppe” ha lasciato la sua grande lezione non tanto sulla “romanitas”, quanto sulla perfezione dello stile, e soprattutto dell'impegno a cogliere un valore dominante nella sua cultura; basta questa adesione al Dasein della sua cultura per farne un classico che ancora amiamo. Dante, a sua volta, capisce che la sua propria arte, come quella di Giotto e di Guido, sarà superata, e tuttavia non per questo rinuncia a documentare la sua ricerca della verità servendosi dell'arte perché questa contiene la proprietà magica di rendere “visibile” un mondo che sfugge alla vista, il mondo ontologico dei valori del suo tempo.Il capitolo successivo è dedicato ad una storiella che Petrarca racconta in una delle Familiares. Protagonista della vicenda è Carlo Magno che si innamora perdutamente di una femminuccia (muliercula), e quando muore la fa imbalsamare e continua a volerla. Ma un vescovo gli rivela che il segreto dell'attrazione è dovuto ad un anello che la mummia nasconde sotto la lingua. Questo anello viene gettato in una palude melmosa e Carlo si libera dall'effetto malefico che quel feticcio ha su di lui, ma ama sedersi a meditare vicino alla palude e su di essa fa costruire la città di Costanza. La fabella rimarrebbe una curiosità se la lettura di Ficara non vi vedesse in controluce il dissidio dell'animo di Petrarca, del suo amare il mondo (Laura e le lettere) e il suo Creatore. In quel suo viaggio dilemmatico Petrarca non perde mai la fede anche se il rischio di perderla è costante. Ma sulle rovine si costruisce: così vuole il mito della “rinascita” che è sempre una “vittoria”. E per dirlo con l'impareggiabile stile di Ficara: “Se la disperazione è il frutto del desiderio («ambitio mundi») il senso di colpa è il frutto maturo della disperazione, qualcosa che fa cambiare rotta e libera l'anima dal suo giogo” (p. 54). Si vede da un'altra angolatura il tema del “deporre la poesia”, quel capire il “limite” della comprensione stessa e quindi superarlo e procedere oltre.In effetti il cammino dei “classici” ci presenta un limite diverso ad ogni nuova tappa o mutamento di epoca culturale. Il saggio che segue, “Rinaldo sulle nuvole” (pp. 56–61), esamina un quadro di Poussin che rappresenta il giardino tassiano di Armida. Ficara si sofferma sulle nuvole che oscurano il limpido cielo sovrastante il giardino e sono per lui un simbolo e una spia di una svolta epistemica. L'amore rinascimentale tende alla suprema conquista spirituale, ma con Tasso conosce l'insidia della non-permanenza, del dileguarsi della magia che crea l'illusione di quel giardino, e prelude alla scoperta del nulla che si nasconde nella materia. In quelle nuvole Poussin ha rappresentato il “limite” dell'illusione e delle apparenze, e l'angosciosa intuizione che dietro la materia ci sia il nulla. Per noi è interessante che sia l'interprete Poussin a cogliere in Tasso il senso dell'impermanenza: interessante perché, vedremo, l'interpretazione gioca un ruolo fondamentale nella nozione della “critica saggistica” di Ficara.La prossima tappa è quella del “materialismo puro” e in essa culmina il movimento che completa la parabola dell'inversione dell'asse epistemico. Ma c’è una tappa intermedia, quasi un ultimo rimedio alla fugacità della reale, ed è l'illusione che la stabilità dei segni dia inalterabilità alle cose che ci appaiono. È il linguaggio delle immagini, dell'iconografia, che domina nella cultura degli emblemi e delle rappresentazioni figurative dei concetti. A questa cultura è dedicato il capitolo su Cesare Ripa («I tarocchi del Ripa», pp. 62–67). Senza soffermarci sulle lucide osservazioni raccolte in così poche pagine—le sintesi sono efficaci in misura proporzionale all'economicità con cui vengono costruite—notiamo soltanto che si sta profilando una scheletrica “storia della letteratura”, condotta sul filo della “ricerca degli assoluti” che vogliono lasciare una traccia dell'insopprimibile desiderio umano di trovare un'espressione dell'esistere in una formula o segno che resiste al tempo; e niente adempie meglio a questa funzione di quanto non faccia la poesia o l'espressione artistica che sopravvive alle mura delle città e alle rovine degli imperi.Questo bisogno esistenziale viene affrontato dalla negazione dei materialisti libertini (campo al quale Ficara ha dedicato molti studi) per i quali le realtà dello spirito sono semplicemente delle illusioni. Il corpo e la materia sono la sola realtà. Sennonché la fondazione del sapere sulla realtà non risolve il problema della certezza: chi pensa di attingerla approfondendo l'essenza della realtà materiale si rende conto, alla fine, che questa è il nulla, per sua stessa natura inattingibile. La convinzione diffusa con il pensiero libertino che il superamento del “limite” sia la fuga dalla introspezione nella libertà dell'avventura e del piacere, crea la certezza che l'incerto sia affascinante, e chi lo vive—specialmente alcuni autori francesi—sentono questa libertà di non auto-esaminarsi, ma il risultato non è sempre quello previsto. Alcuni autori italiani come Casanova, al quale è dedicato il capitolo successivo («Le avventure di Casanova», pp. 68–73), rimangono delusi e con un senso di vuoto e di malinconia: inseguire ciò che fugge e sfugge dimostra in modo negativo che l'assoluto è non solo inafferrabile ma anche invivibile perché ricomincia sempre da capo. Sono il preludio del problema che Leopardi cercherà di risolvere.L'atteggiamento libertino davanti ai grandi temi del piacere e della sua permanenza impone così in modo drammatico la consapevolezza che ragione e assoluto, nella loro operazione primaria di ricerca filosofica e di permanenza della creazione artistica, si scontrino in modo irrisolvibile e disperante. Siamo al «Leopardi filosofo», trattato nel capitolo successivo (pp. 74– 85) in cui l'asse epistemico si sposta ancora una volta, e un nuovo “classico” ce ne dà la cifra. Il saggio è imbastito su un'analisi finissima del “canto del pastore errante per l'Asia”, lettura che offre il pretesto per rivedere il modo in cui Leopardi arriva al suo nichilismo filosofico che vede la vanità del tutto e del capire tutto, ma non frena l'emozione di scoprire quanto dolore provochi la scoperta di questo niente. Della lettura di Ficara si può solo dire che bisogna leggerla per apprezzarne la densità e la finezza. Qui diciamo solo che nel “cammino dei classici” siamo arrivati al punto in cui l'inchiesta filosofica si identifica con la poesia stessa nel senso che si affanna contro lo stesso limite di capire qualcosa che sia e stia per sempre, chiara e inalterabile, una sorta di punto d'appoggio per costruire una giustificazione del nostro essere in questo mondo, anzi dell'essere di tutto l'universo. Le premesse sono ricavate dal materialismo humiano che spiega anche l'origine delle sensazioni e delle idee, tanto che il sentire del pastore e il pensare del filosofo poeta portano alla stessa conclusione che tutto muore senza che si attinga la spiegazione di ciò che pure sentiamo. L'affanno di cogliere questo punto fermo si attrezza ora degli strumenti della filosofia e le ripercussioni nell'anima non sono certamente consolatorie.Ma questa sconfitta può servire almeno a rafforzare la solidarietà fra gli uomini, e ciò spiega la scoperta che la “letteratura” può e deve avere la funzione non tanto di trovare principi assoluti quanto invece consapevolezze che sono almeno forme di vittoria relativa. La ginestra, insomma; e la letteratura autentica porta a tale vittoria.Lo capisce Francesco De Sanctis, che alla letteratura delega la funzione di indicare alla nazione gli ideali da raggiungere. Un intero saggio è dedicato a De Sanctis, ad un critico il quale ci aiuta a capire la natura e la funzione dei classici. Il saggio è il più “personale” del libro nel senso che Ficara, illustrando le idee di De Sanctis, viene a discutere direttamente del suo modo “saggistico” di fare critica. Le considerazioni sul “romanzo della letteratura italiana”, cioè sulla Storia della letteratura del critico irpinate, sono profonde e suggestive, ma qui interessa più il fatto che sia presente in questo libro sui “classici in camino”. Si ricordi intanto che il capitolo chiude la prima parte dell'opera apertasi con il ritratto di un “maestro perfetto”. L'intero volume si chiude con il ricordo di alcuni maestri di Ficara: è certamente un aspetto strutturale che non può passare inosservato, e fa riflettere sul ruolo che Ficara assegna a certi critici-maestri. Cosa hanno di particolare questi maestri di Ficara e a loro volta allievi di De Sanctis? Cercano la “vita” nella letteratura, vita da intendere come “impulso” a definire i limiti e ad aspirare a superali; cercano, cioè, quel quid che eleva gli autori al livello di “classici”. Nella visione che De Sanctis ha della storia esiste una traiettoria che tende verso la libertà dello spirito—la stessa traiettoria vista da Hegel e da Croce—e che è contrassegnata dai grandi autori nelle cui opere si percepisce quell'impulso. Questi saranno anche i Petrarca e i Leopardi benché la loro tendenza all'introversione possa far pensare altrimenti. Sono autori la cui vitalità causa nei lettori un amore della vita, e in questo sono “immortali” e duraturi, classici. La funzione del critico è mettere in luce quella “vitalità”, il loro impulso alla libertà, a “deporre” la poesia una volta che ha detto in modo unico ai suoi lettori dove la storia li porta e li chiama. Il critico, insomma, “dialoga” con i suoi amici classici, e i suoi discorsi educano i lettori a leggerli per apprezzarne il valore autentico. Questo critico non è l'arido filologo né il raccoglitore di fioretti di bei versi e romanzi senza sostanza, bensì il mediatore di quell'impulso alla libertà consistente nell'identificare e quindi passare oltre i limiti che imprigionano l'uomo, ed è un impulso che vibra con frequenza altissima negli autori veramente grandi. Pertanto, il critico esplica al suo meglio la propria funzione quando tralascia le consuetudini interpretative apprese a scuola e non si perita di esporsi in prima linea, discutendo con gli autori, esprimendo le proprie reazioni tanto positive che negative, allargando il discorso nel modo che gli sembra più idoneo per far amare gli autori che egli ama. E non importa tanto vedere se il suo autore combatta per la parte giusta o per la parte sbagliata, o che segua dei principi morali che non sono condivisi da tutti: importa che risalti con vigore limpido che egli aspira alla libertà, e già questo lo inserisce nel flusso vincente e vitale della storia. Il critico, insomma, diventa un autore con una sua voce e con la funzione precisa di “ren

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